Ieri notte, consapevole del giorno di festa e della possibilità di dormire più a lungo, mi sono concessa di finire il libro di Massimo Gramellini, leggendo fino alle due di notte. Confesso di non averlo comprato né attirata dalla storia (della quale si trova proprio tutto sul web) né dalla copertina, ma dal fatto che in autunno farò un corso con lui e volevo aver letto almeno un suo libro prima di incontrarlo.
Bene! Dopo aver fatto la mia confessione, mi sento meglio e posso dirvi perché ho deciso di raccontarvi la mia esperienza con “Fai bei sogni”. Come ormai sapete non parlo di tutti i libri che leggo. Rischierei di annoiarvi ed anche di annoiare me stessa perché non tutti i libri riescono a stimolare le mie riflessioni. Questo, però, mi ha fatto pensare…
La storia raccontata è autobiografica. Almeno lo è in parte, secondo l’autore. Un bambino rimane orfano a nove anni e cresce con suo padre, il quale reagisce alla perdita del suo grande amore chiudendosi in sé stesso e non riuscendo ad accettare un’altra donna dolce e affettuosa in casa. Credo che sia una cosa comprensibile, perché una donna, anche se solo una tata, che si occupi amorevolmente del figlio e della casa riporterebbe indietro ricordi dolorosi. Quando si è sofferto molto per la perdita di qualcuno, qualcuno molto prezioso, tutto ciò che potrebbe riportare indietro i ricordi dai meandri reconditi del cervello dove sono stati nascosti viene evitato come la peste. Questo padre ama suo figlio, lo ama moltissimo, ma è diverso da lui. E’ un uomo che si è costruito una stabilità con la razionalità. Le cose che gli danno sicurezza sono “reali” e tangibili, mentre ciò che è incontrollabile (come la morte) e imponderabile lo lascia attonito e lo rende insicuro. D’altra parte la madre è una donna dolce, emotiva, fragile… Vabbè, non è mica una cosa negativa per forza! Anche lei ha già avuto la sua parte di difficoltà: orfana di padre, comincia a lavorare giovanissima per aiutare la madre a mantenere i fratelli più piccoli. Quando viene messa davanti alla paura di morire, crolla. Ciò non è, per forza, una cosa tremenda. E’ un essere umano e in quanto tale imperfetto. Se fosse stata una macchina programmabile avrebbero potuto inserire il messaggio: “Reagisci al cancro. Combatti fino alla morte se serve, ma non arrenderti”. E lei, sempre se fosse stata una macchina programmabile, lo avrebbe fatto come fanno i soldati, i condottieri, i martiri della religione. Lei, invece, non ce la fa ad essere un “martire della vita” e sceglie da sola. E qui bisognerebbe far scendere il silenzio del rispetto e mettere un sacrosanto punto finale ma… – c’è sempre un ma in qualunque storia – ma c’è un bambino. C’è un bambino che ha solo nove anni e che sta dormendo. Il piccolo Massimo dorme e sogna, come qualunque bambino della sua età; sogna un futuro felice, una mamma amorevole e, magari, un grande amore e una famiglia. Purtroppo colei che dovrebbe accompagnarlo nel mondo, insegnargli a comportarsi, a vivere in società e ad amare, quella notte scompare. Poco importa come sia scomparsa, il fatto che conta è che non c’è più. Non c’è per accompagnarlo a scuola, per aiutarlo a fare i compiti, per curarlo quando ha la febbre, per aiutarlo a capire i primi tepori d’amore. Non c’è e basta, senza possibilità di appello, senza possibilità di tornare indietro. Lei non ce l’ha fatta ad affrontare la paura e ha lasciato suo figlio ad affrontarla da solo. Così il bambino si inventa una “scusa” plausibile per l’assenza di sua madre e la racconta a tutti, anche a sé stesso. Ma c’è Belfagor che gli ricorda continuamente la sua inadeguatezza e, senza che il bambino lo sappia, gli sussurra nell’orecchio quella che crede essere la verità: «tua madre non ti amava abbastanza per lottare!». Così il bambino combatte la sua battaglia contro Belfagor per dimostrargli di essere degno di amore e di poter trovare una stabilità emotiva. Alla fine ci riesce e il romanzo finisce con un bel “lieto fine” pieno di speranza.
La storia potrebbe sembrare banale, solo perché sarebbe potuta accadere a chiunque -forse è proprio questa la ragione del grande successo- . Non è, però, banale il modo in cui Gramellini sceglie di raccontarla. Il tono asciutto, mai accorato, a tratti ironico, non muove una compassione scontata e lacrimevole, anzi spinge alla riflessione, all’analisi dei personaggi e anche ad immedesimarsi nella storia. Chi vuole sopravvivere a traumi molto importanti è obbligato a non piangersi addosso, a non lasciarsi adulare dalla tristezza e dallo sconforto. Ho detto “chi vuole sopravvivere” perché esistono anche altri modi di reagire, nessuno condannabile. Esiste la depressione, esistono gli psicofarmaci, i sonniferi e tante altre manifestazioni di violenza contro sé stessi e contro gli altri di cui non è opportuno parlare qui. Il racconto, romanzo o meno, affronta, in modo estremamente leale e lucido, la battaglia che occorre intraprendere per trovare il proprio spazio nel mondo e realizzare la propria leggenda personale. Il lieto fine secondo me sta proprio nella comprensione che tutte le prove, tutti gli eventi della vita servono a portarti proprio dove sei e ad essere quello che sei, se non fossero accaduti, se la madre non fosse morta, se, se, se… il bambino Massimo oggi sarebbe un altro e forse nemmeno avrebbe scritto un libro diventato tanto popolare.